Data: 27/09/2024 - 08/11/2024
Ora: 9:00 - 19:00
«Gente mia» è un titolo programmaticamente esemplare. Nessuna circonvoluzione, nessuna ambiguità linguistica di significato: la sincerità e la chiarezza costituiscono una sorta di “coscienza di sé” del lavoro fotografico di Gianfranco Jannuzzo che, anche nelle sue forme più strutturate e finalizzate, possiede un’inclinazione naturale. Attraverso le immagini il fotografo elabora e trasmette i propri modi di organizzare il mondo, e Jannuzzo compie quest’attività – che ha precisi significati simbolici e rituali – configurando il suo obiettivo a una sorta di piacere ludico, tra idea della maschera ed ebbrezza della vertigine.
Chi è la “gente mia” di Gianfranco Jannuzzo? È la sua heimat, la sua piccola patria. Questo vocabolo tedesco, che non ha un corrispettivo nella lingua italiana, traduce perfettamente il senso di ricerca di queste immagini, perché l’heimat è allo stesso tempo il luogo in cui si è nati e il luogo in cui si parla la lingua degli affetti, che per Jannuzzo coincidono a una parabola di riferimenti chiari: Agrigento, la Sicilia, il teatro. Per tesserli in una maglia unica, con l’inganno dichiarato della ragnatela, il fotografo agisce dentro la cornice più ampia del punto di rottura dell’immagine stessa, cioè del suo scarto. In lui il calcolo e l’improvvisazione, che di solito sono elementi avversativi e inconciliabili, coesistono fino alla mimesi, quasi che l’uno esista in ragione dell’altro, ed è questa la cifra stilistica di Gianfranco Jannuzzo che presiede al fascino che provoca il suo lavoro fotografico.
A vederla nel suo insieme, questa mostra si configura come un archivio di volti, una galleria di espressioni, di sentimenti, di idee e di relazioni: tutto ciò che dal viso origina e significa per il mondo. Il confronto, e lo scontro, tra la dimensione interiore e quella esteriore, tra l’estetica delle facce e l’etica del volto, tra chi sentiamo di essere e ciò che vogliamo mostrare agli altri: tutto questo si consolida inevitabilmente nella nostra carne, nelle sue linee e nei suoi segni, e può essere raffigurato, condiviso, fatto proprio se ci si pone davanti agli altri con coraggio. Jannuzzo questo coraggio lo possiede, e da uomo di teatro sa bene quanto il volto sia una maschera e come dai paludamenti finzionali della maschera emerga l’autenticità del volto.
I volti sono quelli dello spettacolo e della dimensione pubblica del teatro – volti riconoscibili, colti per amicizie conquistate, dentro spazi più intimi, o rubati a un’espressione tipizzata – e soprattutto quelli della gente della Sicilia e di Agrigento: volti semplici o magnificamente raffinati, stentorei o decadenti, umoristici e tragici. Queste fotografie straordinarie, nella loro bella fissità pittorica, raccontano le gioie e l’incubo della condizione umana in Sicilia e, in molti casi, il pirandellismo ontologico di Agrigento: i pazzi di ragione coi loro visi allucinati, le donne attorcigliate e sconvolte, e il riscatto della gentilezza patetica della figura umana. Alcune immagini, soprattutto quelle dei ragazzi, con i loro tratti somatici e i grandi occhi neri, nella gioiosa decadenza del centro storico, restituiscono l’incanto di uno sguardo lieto che resiste all’avvilimento della storia; la vince, la storia, con l’inatteso furore e con la tenerezza di chi ha un posto nel mondo.
I “fotografati” di Gianfranco Jannuzzo quasi sempre lo conoscono, per amicizia antica o per fama; e la ritrosia sospettosa e tetra che avrebbero con altri, ai quali negherebbero il prestito del proprio volto, si traduce in una forma di intesa giocosa, assumendo come vera l’espressione mascherata. Jannuzzo sa benissimo come conquistare il risultato che ottiene dalla sua gente che, in un gioco delle parti raffinatissimo e delicato, chiede sovente di testimoniarne l’esistenza a futura memoria. E con la serietà del gioco Gianfranco Jannuzzo svela l’enigma del volto, che è sempre tautologico, perché al di là dei suoi significati assunti non rimanda ad altro che a se stesso, al miracolo di essere solo e soltanto il volto di una persona, la forma di sapere di un’estetica non codificabile.
BENIAMINO BIONDI